giovedì 17 gennaio 2013

Django Unchained (2013) - di Quentin Tarantino. Recensione.


Quentin Tarantino ha inventato un genere cinematografico attingendo da altri generi, e nel fare questo è stato un genio, regalandoci film indimenticabili che sarebbe superfluo citare.
Questo film è però deludente (e lo dico a malincuore) per una serie di motivi che cercherò di riassumere di seguito.
Innanzitutto i tempi sono pesantemente dilatati nel fallito tentativo di dare maggiore suspense ad alcuni momenti del film, che, come diretta conseguenza, dura quasi il doppio di una normale pellicola.
Ci sono citazioni un po’ forzate. Ad esempio, la colonna sonora ( da sempre tratto distintivo di qualità dei film di Tarantino) attinge dalle colonne sonore di almeno altri 2 film. Non si tratta però di due film qualsiasi. Nello specifico prende lo stesso identico tema iniziale dal primo Django di Sergio Corbucci; nel secondo caso il furto è ancora più grave perché, nella scena finale del film, parte il tema di Lo chiamavano Trinità, per la gioia del celebre compositore Franco Micalizzi (che ultimamente , grazie alle eccellenti interpretazioni dei Calibro 35, è tornato meritatamente di moda). Non solo credo che non si possa rubare quel leggendario tema musicale ad un film cosi importante, ma sono certo che qualunque spettatore lo troverà del tutto inappropriato ad accompagnare appunto la scena finale del film di Tarantino.
Fortunatamente nella soundtrack possiamo trovare anche una struggente canzone, scritta da Ennio Morricone e magistralmente interpretata da Elisa, meritevole di attenzione.
Inoltre, Samuel L. Jackson, quasi irriconoscibile, ci regala una delle sue migliori interpretazioni di sempre, nei panni di un personaggio scritto egregiamente.

Tornando alle citazioni, il cameo di Franco Nero, è un’evidente omaggio all’attore che nel 1966 interpretava il ruolo del protagonista del primo Django. Chiarisco subito che la trama di quest’ultimo lavoro di tarantino è originale e non ha niente a che vedere con le decine di  film contenenti il nome Django, prodotti dagli anni 60 in poi, senza mai riuscire ad eguagliare, per qualità e incassi, quello di Corbucci.
Il fatto che non sia uno spaghetti western non è di per se un difetto. Ma davvero pensavo che uno dei registi più validi di Hollywood potesse veramente fare un lavoro migliore tuffandosi in questo genere cinematografico in cui poteva facilmente dare il meglio di se. C’è indubbiamente il suo marchio, i suoi personaggi sopra le righe, i dialoghi esageratamente pregni di enfasi, ma, dal punto di vista qualitativo, sembra aver fatto un passo indietro rispetto a Bastardi senza gloria, e strizza timidamente l’occhiolino ai lavori dell’amico e collega Rodriguez.
Vederlo va visto, ma è facile rimanerne delusi.

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